Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali
(Lorenzo Milani)
Confrontate questa frase con quanto scrive Karl Marx nella “Critica al programma di Gotha” del 1875 dove egli distingue fra una prima e una seconda fase della società comunista.
La prima fase del comunismo descrive una società “non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le ‘macchie’ della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro (…)”. Quindi “egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione per i fondi comuni) e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra”. Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore eguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una eguale quantità in un’altra.
L’eguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e pratica non si azzuffino più (…). In definitiva “il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma l’uno è moralmente e fisicamente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare per un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è dunque un diritto diseguale per lavoro diseguale. Esso non riconosce alcuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto (…). Per evitare questi inconvenienti, il diritto, invece di essere eguale, dovrebbe essere diseguale”.