Dovremmo aver coscienza che abitiamo in un immenso cimitero… Con la non violenza riconosciamo il diritto di tutti all’esistenza, con la non menzogna il diritto di tutti alla verità.
(Aldo Capitini)
Il 24 settembre 1961, su iniziativa di Aldo Capitini, si svolge la prima marcia per la pace da Perugia ad Assisi
Un apostolo laico
A Roma un incontro su Aldo Capitini, teorico della nonviolenza
Di Antonio Vigilante
Parlare di nonviolenza e commemorarne il suo massimo apostolo italiano – quell’Aldo Capitini scomodo testimone del suo tempo, teorico del liberalsocialismo, antifascista condannato al confino, uomo di pensiero e filosofo, “laico religioso”, come amava definirsi, ma soprattutto politico anomalo ché della politica faceva pratica quotidiana e non parola – non si può se non partendo dalla constatazione di una sconfitta. Il Novecento di Capitini, come quello di Gandhi, è infatti un secolo di violenze: e a nulla è servita l’esperienza di due guerre mondiali, della Corea, del Vietnam se è vero che il secondo millennio si chiude impugnando, ancora, le armi. Lo dice a chiare lettere Pietro Ingrao – nel corso di un incontro dedicato a Aldo Capitini cui hanno preso parte, tra gli altri, Rocco Altieri, Antonio Vigilante, Tom Benettollo e Rocco Pompeo – e la sua voce malcela un disagio: “Rispetto al messaggio di Capitini, noi abbiamo camminato su una strada diametralmente opposta che ci ha condotto alla rivalutazione della grande guerra di massa. Una guerra non più difensiva, come vorrebbe l’articolo 11 della nostra costituzione, né di necessità ma ‘bene in sé’.
Che senso avrebbe, altrimente, questa nuova aggettivazione – “umanitaria” – che liquida financo quell’ultima copertura che era stata rappresentata, nel Golfo, dall’Onu?”. Fallisce Gandhi quando la sua India costruisce la bomba atomica. E fallisce l’ideale di Capitini quando l’Italia decide di diventare portaerei americana. Dalla politica dell’oggi ai ricordi di ieri e viceversa. E’ un andirivieni continuo quello cui Ingrao si lascia andare e che fa dei suoi racconti tele popolate da personaggi ancora e sempre vivi. “Fu tra il ’38 e il ’39. Il temporale stava per abbattersi sul mondo.Con Paolo Solari andammo ad Assisi. C’era anche Capitini. Io e Solari, a tavola, ci demmo
i gomiti perché Capitini era vegetariano. Non capivamo come anche quello fosse un suo modo di praticare la nonviolenza”. Che è apertura, ricorda Rocco Pompeo, all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo dell’essere ma soprattutto tensione verso il sovvertimento di una società inadeguata e costruzione di una vera democrazia. La quale – sottolinea Benettello – deve fondarsi su un movimento di cittadinanza attiva e farsi, così, autenticamente partecipativa. Qui la sfida – oggi come ieri e basterebbe rileggere qualche pagina del Politecnico – va giocato sul terreno del sapere e del sapere diffuso, unica garanzia di democrazia diretta. E’ da qui che la sinistra
deve ripartire ed è alla luce del pensiero di Aldo Capitini che i nuovi movimenti antisistemici (da Seattle a Davos a Porto Alegre) vanno letti.
Lì, e senza che i suoi attori ne siano sempre consapevoli, continua a vivere il “capitinismo”.
E non è un caso che proprio a Porto Alegre siano stati istituzionalizzati quei centri di orientamente sociale che Capitini, come ricorda Antonio Vigilante, aveva fortemente voluto. E’ a partire da questo movimento dal basso che Capitini dialogava con la sinistra così cercando di condurre la politica lontano dalle élite. E di edificare l’”omnicrazia”, il potere di tutti. Non il dominio ma il potere,
cioé la libertà di fare. Questa era la pratica non violenta (non pacifista) di Capitini: limitare il dominio e diffondere il potere – e il sapere – sino a farlo diventare di tutti.