Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete catturato l’ultimo bisonte, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che il denaro non si può mangiare.
(Toro Seduto)
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Il 25 giugno del 1876 si svolge la battaglia di Little Bighorn tra l’unione di indiani Lakota (Sioux), Cheyenne e Arapaho e il 7º Reggimento di cavalleria dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Lo scontro segnerà una delle poche schiaccianti vittorie dei Lakota e dei loro alleati delle guerre indiane.
Ma si tratta solo una tra le tante battaglie di una guerra lunga e sanguinosa. Una guerra, quella intercorsa tra nativi americani e bianchi, non solo di armi, ma anche di mentalità e di pensiero; una guerra che continua ancora oggi.
di Cristina Di Giorgi
“Quando un esercito di bianchi combatte i nativi americani e vince, questa è considerata una grande vittoria. Ma se sono i bianchi ad essere sconfitti, allora è chiamato massacro”.
Questa frase del capo indiano Chiksika a proposito della battaglia di Little Bighorn del 25 giugno 1876 è estremamente emblematica. Ha il potere, infatti, di cristallizzare un modo di pensare e di raccontare la storia ideologico e parziale che, nel caso dell’antico conflitto tra coloni e Pellerossa, ha radici antiche e strascichi pesanti che arrivano, a ben vedere, fino ai nostri giorni.
Quanto a quel che accadde sui campi di battaglia, la guerra iniziò quando i coloni provenienti dall’Europa prima, e i soldati dei neonati Stati Uniti poi, si attivarono per stabilire e rafforzare il proprio potere nei territori di tutto il Nord America in cui, fino a quel momento, i nativi avevano vissuto, cacciato, pregato e seppellito i loro morti. Gli storici parlano in proposito di Guerre indiane, comprendendo in tale categoria una serie di conflitti il cui inizio viene fatto risalire al 1775-76 (a cavallo dunque della nascita degli USA, che risale come è noto al 4 luglio 1776) e il cui anno conclusivo è il 1890. All’interno di questo lungo arco di tempo, tra scontri, spargimenti di sangue, leggi istitutive di riserve indiane e quant’altro, si è riversata sui nativi una marea di violenza materiale e psicologica che ha portato quasi al loro annientamento.
Cantano gli Iron Maiden, nel brano intitolato “Run to the hills” (singolo dell’album “The number of the beast”, uscito nel 1982), che ben descrive quel che accadde nel corso degli anni alle numerose tribù del popolo dei Pellerossa:
“L’uomo bianco venne dal mare. Ci portò dolore e miseria. Uccise le nostre tribù, uccise la nostra fede, ci prese la selvaggina per il suo bisogno. Soldati blu nelle lande desolate cacciano e uccidono come fosse un gioco. Violentano le donne e rovinano gli uomini, danno loro whisky e prendono il loro oro. Schiavizzano il giovane e distruggono il vecchio. Correte verso le colline, correte per le vostre vite”.
Tra i massacri più noti di cui gli indiani d’America furono vittime nel primo periodo del conflitto in questione, c’è sicuramente quello del fiume Sand Creek, nel Colorado, avvenuto il 29 novembre 1864. In quella data un villaggio di Cheyenne e Arapaho fu completamente distrutto dalle milizie statunitensi. Tra le 120 e le 180 le vittime stimate, per la maggior parte donne, vecchi e bambini. Un massacro, quello del Sand Creek, che l’indimenticato Fabrizio De André scelse come tema per la sua bellissima, omonima ballata.
A Little Bighorn vinsero invece i Pellerossa. Contro di loro era schierato il 7° Cavalleggeri statunitense guidato da George Armstrong Custer. Costui, pur essendo un personaggio discusso – nella Guerra di Secessione aveva vinto diverse battaglie ma era anche stato sanzionato dalla Corte Marziale per problemi di disciplina, oltre a essere descritto da molti come un uomo vanitoso e arrogante – ne aveva assunto il comando circa dieci anni prima. Si trattava, come si legge in diversi studi storici, di uno dei quattro nuovi Reggimenti di cavalleria che la riforma dell’esercito del 1866 aveva istituito in funzione prettamente anti-indiana.
In quel particolare momento storico i rapporti con i nativi erano particolarmente tesi: ci si trovava infatti nel bel mezzo della cosiddetta “Guerra delle Black Hills”, le montagne sacre per gli indiani Lakota (Sioux) e loro terreno di caccia.
Al termine della fase precedente del conflitto, il territorio che le comprendeva era stato lasciato fuori dai confini della grande riserva indiana, ma era anche stato stabilito che poteva essere liberamente utilizzato da entrambe le parti. Quando però si scoprì che sotto le Black Hills c’era l’oro, la situazione degenerò rapidamente. Il governo americano impose ai nativi un ultimatum: avrebbero dovuto lasciare i territori e rientrare nella riserva entro il febbraio 1876.
Per far rispettare quanto stabilito, vennero inviate sul posto tre colonne armate, tra cui quella comprendente il 7° Cavalleggeri che, secondo il piano, avrebbe dovuto individuare l’accampamento Sioux presente in zona e superarlo, onde riunirsi con il resto del contingente e portare a termine un previsto accerchiamento. Custer però non seguì gli ordini (in realtà, a quanto risulta, abbastanza vaghi) e attaccò l’insediamento, non prima di aver diviso le sue forze in quattro gruppi, con l’idea di riuscire in tal modo a contenere meglio i nativi ed evitarne la fuga.
Un ultimo episodio delle Guerre indiane merita di essere qui ricordato. È il massacro di Wounded Knee del 29 dicembre 1890, nel corso del quale quattro squadroni del 7° Reggimento Cavalleria circondarono una tribù di Miniconjou e fecero strage dei prigionieri. Sul terreno rimasero 25 soldati, forse vittime di fuoco amico, e quasi 300 indiani tra morti e feriti successivamente deceduti. Va precisato, però, che anche in questa circostanza il numero di vittime tra i nativi non è certo ma soltanto stimato.
Venti tra ufficiali e soldati coinvolti nel massacro di Wounded Knee vennero in seguito insigniti della Medaglia d’Onore, la massima onorificenza conferita dall’esercito degli Stati Uniti. Tale riconoscimento è stato più volte aspramente criticato dal Congresso Nazionale degli Indiani d’America, che emanò varie risoluzioni di condanna circa la concessione di quelle che sono state da alcuni definite “medaglie del disonore”.