Il referendum consultivo per l’autonomia regionale indetto dal Presidente Maroni rappresenta soltanto un’anticipazione della campagna elettorale per le elezioni previste la prossima primavera.

Oltre all’evidente inutilità della consultazione sul piano procedurale (si veda l’art. 116, c. 3 della Costituzione), è opportuno tener presente che nemmeno il declamato argomento del forte mandato popolare alla trattativa con lo Stato può, in proposito, valere: in più di una passata occasione, esiti referendari ben più vincolanti (ad es., abrogativi) di quello atteso stavolta dai proponenti, sono stati aggirati o disattesi.

Nel merito del quesito, invece, vorrei anzitutto sostenere che i gruppi politici patrocinatori dell’iniziativa caricano il referendum di significati e aspettative obiettivamente ulteriori (ad es., su tasse, immigrazione, autonomia speciale) rispetto ai margini di negoziazione con lo Stato effettivamente esperibili a norma del suddetto art. 116, c.3 della Costituzione.

Un’eventuale trattativa rivolta all’ottenimento di maggiori competenze regionali verterà comunque:
1) sulle materie di legislazione concorrente, con l’insormontabile limite che, per esse, spetta sempre allo Stato la fissazione dei principi fondamentali;
2) su alcune materie riservate alla legislazione esclusiva statale. La questione nodale è quella delle risorse: se da un lato dovrebbe essere scontato che eventuali nuove attribuzioni cedute al livello regionale dovrebbero essere finanziate con corrispondenti risorse nella misura strettamente necessaria alla loro implementazione (considerato che la Regione ha un bilancio di circa 23 miliardi, pare francamente un’esagerazione l’annunciato obiettivo leghista di far rientrare ben 27 miliardi del cosiddetto residuo fiscale), dall’altro lato, a parere del sottoscritto, risuona ingeneroso il tono egoistico sul quale il centrodestra regionale ha impostato la propria campagna (sono tornati slogan come “padroni in casa nostra”).

Il cosiddetto “residuo fiscale” è anche il prodotto di differenti capacità fiscali riconducibili a differenti condizioni nei tessuti produttivi territoriali, risultanti a loro volta da differenti condizioni storiche, culturali, nonchè da scelte politiche nazionali di lungo periodo, come le scelte relative agli investimenti o quelle relative alla politica industriale. Senza dimenticare il pesante tributo che il Meridione ha versato (e tuttora versa) alla crescita delle regioni settentrionali in termini di lavoro emigrato.

Una delle caratteristiche di uno stato che si concepisca come strutturato secondo un certo grado di “decentramento” territoriale, è che per garantire un adeguato livello di uniformità dei livelli di vita (e di coesione sociale) della cittadinanza, sia predisposto un meccanismo di trasferimenti fra le regioni che lo compongono.

Non si tratta solo dell’elementare principio di solidarietà. Si tratta anche di garantire mercati di sbocco ai prodotti delle regioni più industrializzate e/o avanzate tecnologicamente. Un fattore che dovrebbe porre all’attenzione dei redivivi autonomisti questioni che si pongono molto al di là del semplicistico principio “le risorse rimangano sui territori che le hanno generate”, da essi agitato.

Per esempio, l’Assessore Beccalossi ha detto di recente che per colpa di altre regioni, le quali ricevono determinate risorse, la Lombardia non percepisce fondi dallo Stato per le opere pubbliche già progettate.

A parte il fatto che il referendum non può riguardare la competenza relativa alla gestione del fondo perequativo fra territori, che resta statale, l’Assessore non tiene presente che, a causa della scelta politica nazionale all’insegna dell’austerità (appoggiata anche dal suo partito) lo Stato ha ridotto la spesa per investimenti pubblici in tutte le regioni. Il problema in questo caso è la politica generale, non la distribuzione delle risorse. In conclusione, temo che per tornare ad avere una politica più ponderata, che superi il desolante quadro di superficialità al quale tutte le forze politiche ci hanno abituati, dovremo aspettare ancora a lungo.

Sergio Farris