Roberto Zini, il vicepresidente dell’Associazione industriale bresciana, ha riproposto ieri, 13 settembre, il ricorrente e specioso argomento dell’avvento di un mondo ideale, contrassegnato dalla scomparsa delle distinzioni sociali.

Bresciaoggi riporta le sue parole: “Ora archiviamo il conflitto: per vincere le sfide serve  partecipazione tra imprese e lavoratori … Aumentare i salari è tra i primi obiettivi, ma con premi di risultato legati alla produttività e il potenziamento delle forme di welfare nella contrattazione di secondo livello”. Parole rivolte, prosegue Bresciaoggi, agli associati ma anche alla Cgil.

Peccato che, oltre all’evidente irrealtà dei rapporti sociali delineati da Zini (e delle relazioni industriali ad essi sottese), questi si attardi nel ribadire una posizione i cui contenuti esplicativi altro non sono che gli strumenti elaborati dalla Confindustria proprio per portare a definitivo compimento il conflitto che dice di voler dismettere, con la peculiarità che esso è rivolto dall’alto verso il basso. Un elemento, in particolare, conduce a ritenere quanto sia surreale e fuorviante la posizione apparentemente conciliante degli industriali: la massimizzazione del profitto. Scopo precipuo dell’attività imprenditoriale privata non è il mero perseguimento del profitto, bensì la ‘massimizzazione’ del profitto. Se la quota di reddito prodotto che va ai proprietari di un’unità produttiva fosse ‘data’, o determinanta da una sorta di legge naturale, non sussisterebbe alcun conflitto distributivo. Ma, nella realtà, così non è.

In termini più specifici, se, come surrettiziamente lasciato intendere da Zini, la produttività ‘al margine’ di ciascun partecipante a un processo produttivo eguagliasse la sua retribuzione (cioè la quota di prodotto ricevuta), non vi sarebbe, in esito al risultato produttivo, alcuna contesa relativa all’accaparramento di porzioni di quel medesimo risultato. L’esponente della Aib, in sostanza, cerca di persuadere i suoi interlocutori che non esisterebbe una fetta di ricchezza (un sovrappiù) suscettibile di contesa.

La storia delle relazioni industriali non ha subitaneamante mutato corso. Il declamato aumento dei salari legato ai premi di risultato è solo un intento di facciata: nelle relativamente scarsa percentuale di unità produttive dove è istituita la contrattazione decentrata, nessun imprenditore sarà mai disposto a sedersi volentieri a un tavolo aziendale sapendo che dovrà riscontrare richieste di incrementi salariali relative al ‘sovrappiù’ (del quale Zini cerca di negare l’esistenza). Anche atteso che il risultato aziendale sia misurabile in base a criteri oggettivi e che di esso venga data adeguata pubblicità a tutti i contraenti, il criterio della massimizzazione dell’utile indurrà sempre e comunque una dirigenza aziendale, nei limiti del possibile, a puntare sul contenimento dei costi retributivi. E tali limiti, nelle reali intenzioni degli industriali, devono risultare ampiamente dilatati dalla progressiva soppressione della contrattazione nazionale, quella che, per capirci, deve garantire un minimo di uniformità negli incrementi salariali. In ultima analisi, non si va oltre la ormai tipica politica di ‘deflazione salariale’ la quale, indebolendo le rivendicazioni a livello generale dei lavoratori, non fa che mirare a una redistribuzione del prodotto sociale.

Per quanto afferisce, inoltre, al proposito di sostituire prestazioni proprie degli istituti del welfare universale con eventuali provvidenze da inserire nella contrattazione aziendale, possono qui rinvenirsi, per certi versi, analoghi spunti di riflessione critica. Dietro la copertura ideologica dell’efficienza privatistica, peraltro mai dimostrata nè dal lato della qualità dei servizi nè da quello della lotta alla corruzione (e che vede sovente il settore dei servizi privatizzati godere pure del soccorso prestato dall’erario, a sua volta finanziato in gran parte con le imposte gravanti sui lavoratori), vi è il serio rischio di una rinnovata enfasi sulla presunta necessità di procedere a un ulteriore ciclo di riduzioni della spesa pubblica con contestuali sgravi fiscali a beneficio delle imprese private, come da anni avviene. Una modalità politica anch’essa ascrivibile, seppure per via indiretta, alla categoria del conflitto distributivo, manovrato a vantaggio di chi già si trova situato in alto e diretto contro chi sta in basso. Uno scenario che, da parte di coloro che non credono in facili soluzioni politiche o in fatti stilizzati che si tende a far metabolizzare come tautologie, può soltanto suscitare reazioni di rigetto.

Sergio Farris