Vorrei innanzitutto dire che le dinamiche che hanno portato alla chiusura del Brancaccio non rappresentano un incidente di percorso, un equivoco che se superato con un poco di pazienza avrebbe consentito di realizzare quell’embrasson nous, quell’unità della sinistra alla sinistra del Pd che secondo i suoi sostenitori avrebbe rimescolato le carte in campo creando un quarto polo, nel caleidoscopio politico italiano.

Al Brancaccio, è venuto in chiaro ciò che era da subito percepibile ad occhio nudo e cioè la diversa e persino opposta natura dei progetti politici, della visione di società, dei riferimenti sociali, della stessa idea di democrazia dei soggetti lì convenuti.

Lì si è finalmente capito che se c’è un modo per rendere incomprensibile il giusto obiettivo dell’unità della sinistra, esso è quello di erigerla a bene in sé, a prescindere.

Lì è venuto in chiaro che dobbiamo definitivamente liberarci della convinzione sempre latente che se non sei nelle istituzioni non esisti e che dunque è meglio stare in compagnie indecenti piuttosto che navigare in mare aperto dove ti devi fare strada a colpi di remi.

Il documento programmatico della troika Mdp, Si, Possibile è appunto lì a dimostrare che il perimetro politico entro il quale essa si muove è quello di un centrosinistra forse – e sottolineo forse – depurato dall’infezione renziana.

Ma il fatto è che non costruisci un progetto di inveramento costituzionale, che è un progetto di società – quello contro il quale J.P. Morgan ha scagliato la propria fatwa – con una spruzzata di modesti provvedimenti elettoralistici innestati su un impianto liberista. Perché questo è l’orizzonte culturale dei tre soggetti che si apprestano a confezionare una lista e forse un partito, l’una e l’altro saldamente nelle mani dei noti capi-bastone con l’aggiunta di un front-leader di appeal da spendere nella campagna elettorale.

Ci abbiamo messo un po’, correndo sul filo del rasoio, un po’ per convinzione e un po’ per un eccesso di tatticismo, ma l’importante è che alla fine abbiamo tirato le somme ed è questo che conta.

Liquidato il Brancaccio, è venuta tempestivamente in soccorso l’iniziativa dei ragazzi e delle ragazze di Ie so pazzo che è la vera novità di questi tempi bui, la promessa di un futuro possibile.

Con una maturità forse insospettabile perché finalmente scevra da pregiudizi e diffidenze anti-partito che sono stati la cifra di tutti i precedenti fallimenti, hanno saputo avanzare una proposta, una piattaforma dotata della necessaria radicalità, potenzialmente capace di unificare sociale e politico, partiti, associazioni e movimenti di varia estrazione.

Sono in gran parte giovani – e dio sa quanto abbiamo bisogno di un rinnovamento, di un’ibridazione, anche generazionale, di idee e di energie.

Per una volta, impegno e conflitto sociale, lotta politica e rappresentanza istituzionale non sono vissuti come luoghi incomunicanti, ma terreni contigui, da agire in una battaglia a tutto tondo, dove tutto si tiene. Dove, per dirlo con una formula classica, il sociale si politicizza e il politico si socializza.

Abbiamo letto la bozza di programma redatta da Ie so pazzo.

Il testo definitivo dovrà certo essere scritto meglio, ci sono alcune ingenuità, bisognerà legarne le parti con una tessitura più organica e farlo dando vita ad una struttura di coordinamento nazionale più strutturata.

Poi se ne dovrà redigere una formulazione più snella ed incisiva, tale da rendere immediatamente comprensibile il messaggio nei suoi tratti salienti, senza arzigogoli, perché nella competizione elettorale devi essere concreto ed efficace, scoprendo – come disse una volta Berlinguer – il coraggio della banalità.
Ma lì dentro io trovo che l’essenziale c’è e contiene una proposta ed un linguaggio che chiama in causa e mette in mora la struttura del sistema, le classi dominanti, tutto il brutale armamentario liberista traslocato nelle politiche dei governi.
E parla con chiarezza a quanti ne patiscono sfruttamento e soprusi.
Sarà anche indispensabile – e bisognerà farlo subito, diciamo nelle prossime 72 ore – stabilire delle regole democratiche certe, tali da configurare il processo che si apre come un vero fatto democratico, dove non ci sono né primogeniture, né referenti, né garanti, né guru, né sacerdoti nelle cui mani depositare poteri particolari o esclusivi.

Forse si sta aprendo l’opportunità, anche in Italia, di costruire l’embrione di una sinistra anti-liberista, di ispirazione europea ma fortemente ancorata nella questione nazionale.

E comincia a farsi strada la persuasione che non è vero che un progetto di profonda trasformazione della realtà porti cucito addosso lo stigma dell’estremismo velleitario e sia inesorabilmente consegnato alla marginalità.

Insomma, è importante conquistare la convinzione che realismo non si declina con moderatismo. Del resto, lì il campo è già affollato.

Per ora si tratta di una possibilità, molto c’è da scavare e le insidie certo non mancano.
A partire dal fatto che il processo avviato non ha un retroterra sperimentato di lavoro politico, ma nasce dall’emergenza di un appuntamento elettorale, dalla necessità di lanciare nello spazio pubblico un segnale in netta controtendenza.

Fare questo in un tempo così breve non sarà facile, perché siamo in grave ritardo e l’appuntamento elettorale è fra soli tre mesi; perché l’oscuramento sarà totale, perché i nostri mezzi di comunicazione sono rudimentali e perché nel circo mediatico la moneta falsa che viene spacciata è quella che identifica in D’Alema e soci la “vera” sinistra che si riorganizza.

E tuttavia, per dirla con le parole della favola di Esopo: hic rhodus hic salta! Infatti è qui ed ora che dobbiamo misurare la nostra vitalità, la nostra utilità e la nostra ragion d’essere.

E allora il ruolo di Rifondazione non può ridursi al pur decisivo e come sempre generoso contributo nella raccolta delle firme.

C’è un’iniziativa diretta, un compito di tessitura politica, di agglutinamento, da svolgere nei confronti del micro-universo delle organizzazioni della sinistra anticapitalista.

C’è un lavoro di interlocuzione e di inclusione nel quale Rifondazione deve spendersi in ogni territorio, annodando o riannodando fili che non hanno mai saputo organizzarsi un una trama unitaria.

Sono mondi che spesso hanno in comune una discreta vocazione autistica, che racconta delle cento sfumature in cui ciascuno di essi si articola e spesso si arrocca, difetto, del resto, dal quale neppure noi siamo immuni.

La frantumazione della sinistra di ispirazione anticapitalista ha una quantità di ragioni, fra le quali c’è la presunzione autoreferenziale, che a sua volta è il prodotto dell’assenza di un progetto forte e di una soggettività matura che lo sappia fare vivere.

Occorre però chiarire bene fra di noi, con i nostri iscritti e anche con i nostri interlocutori, che il successo o l’insuccesso di questa battaglia non si misureranno con il raggiungimento o meno del quorum nella prossima consultazione elettorale.

Certo, meglio se riusciremo a mandarla in buca, e per questo dovremo lavorare senza sosta, ma ciò che più conta è la nostra scelta di campo, fuori da ogni ambiguità, da ogni contiguità politicista, da ogni rischio di risucchio nella palude: la scelta di un nuovo campo da arare, la scoperta che il mondo non finisce con le colonne d’Ercole che hanno al proprio limite estremo Sinistra italiana.

Bisogna credere che il mondo dei subalterni può essere organizzato e darsi una rappresentanza, nelle lotte innanzitutto, ma per andare oltre il ribellismo estemporaneo e sussultorio che alla fine rifluisce nelle miserie del presente.

Liberiamoci dal pessimismo crepuscolare che è il sedimento inerziale di tante sconfitte. Ricominciamo, senza paura, a nuotare nell’elemento in cui i comunisti dovrebbero sentirsi più a loro agio.
E persuadiamoci che nessuna situazione è senza sbocco.
Lo diventa solo se abdichiamo al nostro compito.

In questi mesi siamo stati impegnati in cento iniziative di celebrazione del centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo straordinario che in essa ebbe Lenin.

Tanta storia ci separa da quell’evento, ma ci sono fatti, comportamenti che trascendono il contesto in cui si verificarono e che nelle organizzazioni del movimento operaio tendono a riprodursi, nel presente, con stupefacente similitudine.

Come quando, nei primissimi anni del Novecento, proprio Lenin ingaggiava una battaglia durissima contro il riformismo bernsteiniano che rinunciava ad una radicale trasformazione della società, rinnegava la lotta di classe e invitava il movimento operaio ad abbandonare le utopie rivoluzionarie per ripiegare su un tiepidissimo riformismo.

Lenin, nel suo celebre Che fare, replicava così a coloro che giustamente definiva come avversari:

“Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano.
Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco.
Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione.
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “Andiamo nel pantano!”.
E, se si incomincia a confonderli, ribattono: “Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?”.
Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati.
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso. ”

Dino Greco
Intervento al Cpn di Rifondazione Comunista del 2 e 3 Dicembre 2017